martedì 3 maggio 2016

L'insostenibile leggerezza degli isotopi stabili - Seconda parte

In questo post dovremo affrontare un altro argomento ostico, ovvero attraverso quali principi gli isotopi stabili ci possono fornire dati sull'ambiente, la paleodieta o il clima (quest'ultimo è il caso che prendiamo qui in esame a titolo di esempio).
Isotopi diversi di uno stesso elemento non sono presenti, sulla Terra, in quantità uguali. Nel caso del Carbonio, ad esempio, se prendiamo in considerazione i due isotopi stabili 12C e 13C ci accorgiamo che il primo è molto più abbondante del secondo, dal momento che rappresenta poco più del 98,8% del totale del Carbonio sul nostro pianeta, mentre 13C è presente solo con un valore di poco superiore all'1,1%. La frazione restante, appena lo 0,0000000001% (ovvero 1x10-10 %), è rappresentata dall'isotopo radioattivo instabile 14C. Il rapporto tra il numero di atomi di un determinato isotopo di un elemento e il numero totale di atomi dell'elemento stesso si chiama abbondanza isotopica; di solito in natura l'isotopo più leggero (quindi con un minore numero di neutroni) è quello più abbondante.
Gli isotopi hanno, inoltre, un'altra caratteristica fondamentale particolarmente utile per le nostre analisi: poiché, come abbiamo visto, gli isotopi di uno stesso elemento hanno massa diversa, le loro proprietà fisiche e chimiche sono diverse. In particolare gli isotopi più pesanti presentano tendenzialmente legami più forti con gli altri atomi di un composto e questo fa sì che le reazioni chimiche tendano a concentrare in proporzioni diverse gli isotopi di un determinato elemento nelle sostanze che esse finiscono con il formare e nei reagenti utilizzati. Questo processo prende il nome di frazionamento isotopico.
Immagino già i volti perplessi di buona parte dei miei lettori, ma il principio è più semplice di quanto sembri a prima vista e basterà un piccolo esempio per comprenderlo meglio.
Riempiamo d'acqua una pentola e mettiamola su un fornello della cucina. Le molecole di H2O all'interno della pentola conterranno i due più comuni isotopi dell'Ossigeno (16O e 18O) in una determinata proporzione (diciamo, per comodità 16O = 99,76% e 18O =0,20%). Ora accendiamo il fornello e portiamo ad ebollizione producendo vapore acqueo: la molecole di acqua contenenti 18O (H218O) evaporano con maggiore difficoltà rispetto quelle che contengono 16O (H216O) – più correttamente si dice che esse hanno una tensione di vapore più bassa. Questo vuol dire che, man mano che l'evaporazione continua, l'acqua della pentola conterrà una percentuale di 18O sempre maggiore: l'isotopo più pesante è quindi più concentrato nel liquido bollente rispetto a quanto osservabile nel liquido a temperatura ambiente.
Tutto più chiaro adesso? Bene, con un ultimo sforzo cercherò ora di spiegare come il frazionamento isotopico ci permetta di ricavare informazioni su climi, ambienti e alimentazione nel passato, il tutto continuando a ragionare sui due isotopi più comuni dell'Ossigeno.
L'evaporazione dell'acqua non avviene solo quando la facciamo bollire. Se lasciamo mezzo bicchiere d'acqua in giro per casa vedremo che la quantità di liquido diminuirà, anche se lentamente, con il passare del tempo. L'acqua degli oceani evapora in continuazione, anche se non c'è nessun fornello acceso che la faccia bollire, essa tenderebbe, perciò, a perdere 16O e ad arricchirsi di 18O, tuttavia l'acqua evaporata torna ai mari, direttamente o indirettamente attraverso i fiumi, sotto forma di piogge e quindi il rapporto tra 16O e 18O si mantiene costante. Nelle fasi climatiche più fredde, tuttavia, le calotte polari e i ghiacciai perenni si estendono “imprigionando” acqua che non torna ai mari che, quindi, si arricchiscono di 18O. Nei periodi a clima più caldo, viceversa, lo scioglimento dei ghiacci immette nuova acqua in circolo che riequilibra il rapporto e che, se il clima è così caldo da provocare lo scioglimento di una quantità di ghiaccio molto elevata, può addirittura invertire la tendenza aumentando la concentrazione di 16O.
In pratica, nei periodi in cui il clima globale era più caldo dell'attuale si aveva una concentrazione maggiore di 16O rispetto a quella osservabile oggi, mentre si avevano valori di concentrazione minore quando il clima globale era più freddo. Resta solo un problema: dove trovare acqua “del passato” da cui ricavare i dati? Una prima possibilità sono i carotaggi condotti in ambienti la cui temperatura esterna non sia mai superiore agli 0° C (calotte polari o ghiacciai perenni), una seconda possibilità è quella di sfruttare, in modo indiretto, i gusci calcarei di piccoli organismi marini, i foraminiferi. I loro gusci sono composti, infatti, essenzialmente da carbonato di Calcio (CaCO3) che, come visibile dalla formula chimica, comprende tre atomi di Ossigeno. Questo Ossigeno è ricavato direttamente dalle acque in cui i foraminiferi vivono (o vivevano) e, perciò, ne rifletteranno le percentuali di 16O e 18O: per una stessa località della terra i gusci di foraminiferi vissuti in epoche più fredde presenteranno valori di concentrazione di 18O più elevati, tanto maggiori quanto più freddo era il clima. Molti dei foraminiferi fanno parte del plancton che pullula nelle acque oceaniche e sul fondo degli oceani si ha una specie di pioggia continua di questi organismi morti che restano intrappolati nei sedimenti che, secolo dopo secolo, millennio dopo millennio continuano a formarsi. Bingo! A questo punto ho tutto ciò che mi serve: isotopi dell'ossigeno, campioni contenenti enormi quantità di organismi marini, strati e strati in grado di coprire intervalli cronologici estesi e databili con varie metodologie.

Con una serie di carotaggi dei fondali marini è quindi possibile ricostruire in modo puntuale le oscillazioni climatiche del passato. In pratica, si prelevano carote di sedimenti lunghe decine di metri, si campionano i sedimenti a distanze dell'ordine di alcuni centimetri e dai campioni si estraggono i foraminiferi. Si procede quindi con una misura del contenuto di 16O e 18O nei foraminiferi dei vari campioni e si traccia, calcolando i parametri opportuni, una curva delle variazioni rilevate in funzione della profondità. Datando opportunamente i vari campioni, infine, la curva può essere messa in relazione alla cronologia fornendoci perciò una misura delle oscillazioni nel volume dei ghiacci sulla Terra e, quindi, del clima.

Curva SPECMAP basata sugli isotopi dell'Ossigeno che illustra le oscillazioni climatiche degli ultimi 800.000 anni (Imbrie, J., J.D. Hays, D.G. Martinson, A. McIntyre, A.C. Mix, J.J. Morley, N.G. Pisias, W.L. Prell, N.J. Shackleton, 1984. The orbital theory of Pleistocene climate: support for a revised chronology of the marine oxygen isotope record, In: A. Berger, J. Imbrie, J. Hays, G. Kukla, B. Saltzman (Eds.), Milanković and Climate, Part 1-- NATO ASI Series, C126: 269-305; Reidel, Dordrecht)

In realtà quello che viene utilizzato per produrre le curve climatiche con gli isotopi dell'Ossigeno ( così come per gli studi sugli altri isotopi stabili) non è, in genere, né la semplice quantità dei due isotopi, né il semplice rapporto frazionario R = 18O/16O (l'isotopo più leggero viene messo al denominatore) detto Rapporto di abbondanza, ma una quantità diversa indicata dal simbolo d%0   che illustreremo nel prossimo post.

venerdì 22 aprile 2016

L'insostenibile leggerezza degli isotopi stabili - Prima parte

Le applicazioni delle tecniche di analisi degli isotopi stabili sono diventate, nel corso degli ultimi decenni, un argomento particolarmente “caldo” nel campo della ricerca bioarcheologica. Credo possa, perciò, essere interessante pubblicare una serie di post ad esse dedicati, in modo da illustrarne le potenzialità, evidenziarne le criticità e i punti deboli, chiarire quali informazioni è possibile ottenere dalla loro applicazione e, soprattutto, quali sono alcune delle condizioni necessarie affinché i risultati eventualmente attesi possano essere raggiunti. In questo primo post verranno introdotti alcuni concetti base sugli isotopi stabili e come le caratteristiche di questi ultimi ci aiutino a rispondere ad alcuni frequenti quesiti della ricerca bioarcheologica.

La struttura di un atomo è, per sommi capi, ben nota a tutti noi. Facendo riferimento al modello proposto da Rutherford e poi perfezionato da Niels Bohr ciascun atomo è costituito da un nucleo avente carica positiva e da un certo numero di elettroni ruotanti attorno ad esso e dotati di carica negativa. Un atomo presenta cariche positive – rappresentate dai protoni del nucleo – e negative – gli elettroni – in eguale numero ed è perciò neutro dal punto di vista della carica elettrica.
Il numero di protoni presente nel nucleo caratterizza un determinato elemento ed esprime il cosiddetto Numero Atomico (Z). Ad esempio l'Idrogeno (Z= 1) ha un solo protone (e quindi un solo elettrone), l'Elio (Z=2) ne ha due, l'Ossigeno (Z= 8) ha otto protoni e così via.

 

Nel nucleo, oltre ai protoni, possono essere presenti altre particelle prive di carica, dette neutroni che, ovviamente, con la loro presenza influiscono sulla massa dell'elemento considerato rendendolo più o meno “pesante” quando presenti in minore o maggior numero. La somma di protoni e neutroni presenti nel nucleo si chiama numero di massa (A) e, poiché il numero di neutroni non dipende dal numero dei protoni, possiamo avere elementi che, mantenendo costante Z, hanno valori di A differenti: gli isotopi. Ad esempio l'Ossigeno può avere tre isotopi stabili (vedremo poi cosa vuol dire “stabile”) con valori di A pari a 16, 17 e 18; ciò significa che nel nucleo, oltre agli 8 protoni che caratterizzano l'elemento Ossigeno, sono presenti, rispettivamente, 8, 9 e 10 neutroni. Allo stesso modo il Carbonio, come visibile nella figura qui sotto, ha tre isotopi poiché il suo nucleo può presentarsi formato da 12 (6 protoni + 6 neutroni), 13 (6 protoni + 7 neutroni), e 14 (6 protoni + 8 neutroni) particelle.


Un isotopo si definisce stabile se non si trasforma (trasmuta) in qualcos'altro (isotopo o elemento) ad energia inferiore o, se lo fa, ha un tempo di decadimento talmente lungo da non essere stato misurato sperimentalmente. Il Carbonio 14 è, perciò, un isotopo radioattivo non stabile (il suo tempo di dimezzamento sappiamo essere di soli 5700 anni), mentre Carbonio 13 e Carbonio 12 sono isotopi stabili. Allo stesso modo, i tre isotopi stabili dell'Ossigeno descritti prima (16, 17 e 18) sono accompagnati da un'altra decina di isotopi radioattivi il cui tempo di decadimento è di pochi minuti.
In natura gli elementi che posseggono isotopi stabili sono 21, tra questi vi sono l'Idrogeno (1H e 2H), il Carbonio (12C e 13C), l'Azoto (14N e 15N), l'Ossigeno (16O, 17O e 18O) e lo zolfo (32S, 33S, 34S e 36S). Come è facile intuire il numero che precede, in apice, il simbolo dell'elemento è il numero di massa (A), che come abbiamo detto caratterizza gli isotopi. Dal momento che la massa è un elemento discriminante per il loro riconoscimento, lo strumento che permette di rilevare i diversi isotopi si basa su tale caratteristica; si tratta dello spettrometro di massa, il cui utilizzo è ormai parte integrante delle tecniche analitiche applicate alla bioarcheologia.

Gli isotopi dei diversi elementi sono in grado di fornirci informazioni diverse. Ad esempio gli isotopi dell'Ossigeno ci possono aiutare nella ricostruzione dei climi e degli ambienti del passato, mentre quelli dello Zolfo ci forniscono esclusivamente dati di natura paleonutrizionale, ma avremo modo di tornare in seguito su questo argomento.

Come vi sentite? Certo, non si può negare che l'argomento sia alquanto ostico e, per questo, vi invito a lasciarmi commenti e feedback, segnalandomi soprattutto se siete interessati al tema. In ogni caso continuate a seguire i prossimi post: vi assicuro che, quando saremo arrivati al termine del percorso che ci attende, per voi la bioarcheologia degli isotopi stabili non avrà più segreti.