martedì 8 luglio 2014

Trisomia 21 e archeologia: scoperto un caso di 1500 anni fa

Nel corso di uno scavo condotto in una necropoli a Chalon-sur- Saone datata al V-VI secolo in Borgogna, sono stati rinvenuti i resti di un bambino/infante le cui caratteristiche scheletriche appaiono correlabili con la sindrome di Down. Si tratterebbe della più antica attestazione certa di tale particolare condizione genetica.
Lo studio dei materiali scheletrici, condotto da Maïté Rivollat dell'Università di Bordeaux, ha messo in evidenza una serie di caratteristiche peculiari, riscontrabili soprattutto a carico del cranio. Esso appare, infatti, largo, con ossa del neurocranio sottili e porzione basale appiattita, tutte caratteristiche comuni negli individui affetti da sindrome di Down. 
Key features of the skull indicate that the owner of this 1500-year old skeleton had Down's syndrome <i>(Image: SPL)</i>
Anche se è plausibile che questo problema genetico - che ricordiamo è dovuto alla presenza di una terza copia (o di una sua parte) del cromosoma 21 - abbia accompagnato l'umanità in tutta la sua storia, i casi attestati in archeologia sono piuttosto rari.
Le caratteristiche generali della deposizione non differiscono da quelle di tutti gli altri inumati della necropoli e ciò ha fatto ipotizzare ai ricercatori francesi che il piccolo - o la piccola - non fosse trattata diversamente dagli altri, anche se i problemi a carico delle capacità cognitive e dello sviluppo fisico dovevano essere evidenti. 
Anche se si è dichiarato d'accordo con la identificazione del caso di sindrome di Down, John Starbuck - dell'Università dell'Indiana - ricercatore che ha di recente descritto una figurina Tolteca che presentava caratteristiche compatibili con la trisomia 21, ritiene che sia azzardato escludere qualsiasi discriminazione a carico dell'infante per la difficoltà di estrapolare simili comportamenti da una sepoltura o dai materiali scheletrici.

Bibliografia:  International Journal of Paleopathology, DOI: 10.1016/j.ijpp.2014.05.004

mercoledì 23 aprile 2014

Non è tutto... avorio quel che luccica

Accade spesso, leggendo report di scavo o lavori di vario genere, di imbattersi nella letteratura archeologica in manufatti la cui materia prima è vagamente definita come “osso o avorio” senza giungere ad una più puntuale determinazione, ed è ancora più raro trovare un’identificazione della materia prima dei manufatti che non solo giunga alla definizione dei prodotti ottenuti da denti di animale di media e grossa taglia, ma distingua anche l’avorio ricavato dalle zanne d’elefante (che potremmo definire “vero avorio”) da  quello, ad esempio, ottenuto a partire da incisivi e canini d’ippopotamo (che potremmo definire avorio sensu lato).
Tale distinzione è non solo possibile, ma spesso anche semplice. Messa a punto, in collaborazione con il CITES ed il WWF, per l’identificazione dei manufatti in avorio d’elefante il cui commercio e la cui fabbricazione sono oggi vietati dalle norme internazionali, la tecnica d’esame si basa su semplici osservazioni autoptiche da condursi ad occhio nudo o con l’ausilio di lenti o microscopi a basso ingrandimento ed è totalmente non distruttiva.

Le zanne d’elefante, da cui si ricava l’avorio, sono gli incisivi superiori (a crescita continua) dell’animale che l’evoluzione ha adattato e modellato sulla base di particolari esigenze. Esse hanno, perciò, la stessa composizione di tutti gli altri denti, ovvero smalto, dentina e cemento, tuttavia lo smalto forma solo un sottile cappuccio esterno che viene perduto immediatamente dopo l’eruzione del dente. Per questo motivo, le zanne d’elefante sono interamente formate da dentina, materiale molto più tenero e “modellabile” rispetto al rigido, fragile e duro smalto. La dentina è caratterizzata da tubuli cavi, microcanali che si irradiano dal centro del dente (la cavità pulpare) verso la superficie esterna, il cui diametro oscilla tra 0,8 e 2,2 micron (Espinoza, Mann 1991). Essi hanno perciò diametro molto minore rispetto i canali che caratterizzano la struttura delle ossa (canali haversiani, visibili con un semplice microscopio ottico o lente d'ingrandimento 10x) e necessitano di alti ingrandimenti per poter essere visibili.

Superficie di manufatto in osso al microscopio ottico (20x). Le strutture dei canali haversiani appaiono ben evidenti.


Le sezioni trasversali delle zanne d’elefante mostrano invece una caratteristica unica: le linee di Schreger. Si tratta di strutture variamente definite in letteratura (arabescature, chevrons, ecc.) che formano una sorta di scacchiera curvilinea incrociandosi con angoli ben definiti. Esse sono ben visibili nei pressi della superficie esterna della zanna, mentre si fanno meno evidenti nei pressi della cavità pulpare.

Sezione trasversale di zanna d'elefante. Le visibili strutture a scacchiera curvilinea sono le caratteristiche linee di Schreger, elemento diagnostico per l'identificazione dell'avorio elefantino (avorio sensu stricto).


La presenza delle linee di Schreger su manufatti permette quindi facilmente l’identificazione della materia prima da cui sono stati ricavati.

Frammenti di pettini in avorio provenienti da una necropoli siciliana dell'età del Bronzo con evidenti linee di Schreger.


Incisivi e canini di ippopotamo, al contrario, non presentano le linee di Schreger. La sezione trasversale del dente è caratterizzata, se osservata con una semplice lente a 10 ingrandimenti, da strati di materiale  densamente impilato in livelli concentrici separati da linee sottili.

Sezione trasversale di canino di ippopotamo. Si noti l'andamento concentrico degli strati di dentina


Per le loro dimensioni e per l’elevato spessore della dentina,  i denti di ippopotamo sono stati spesso usati nel mondo antico, e non è raro imbattersi in manufatti fabbricati a partire da tale materia prima.
A tutti coloro che volessero approfondire le tecniche di riconoscimento dell'avorio elefantino e dei suoi sostituti si consiglia la lettura di:

Espinoza E., Mann M., 1992. Identification guide for Ivory and Ivory Substitutes. World Wildlife Fund and Conservation Foundation (Consultabile on-line all'hurl http://www.cites.org/eng/resources/pub/E-Ivory-guide.pdf)

Hornbeck, S., 2010. Ivory: Identification and regulation of a precious material, National Museum of Aftrican Art Conservation Laboratory, Smithsonian, http://africa.si.edu/research/ivory.pdf

Krzyszkowska. O., 1990. Ivory and related materials. An illustrated Guide, Classical Handbook 3, Bulletin Supplement 59, Institute of Classical Studies, London.

martedì 8 aprile 2014

I nostri cari, aterosclerotici antenati...

Che il mondo dei nostri antenati non fosse proprio un’isola felice lo sospettavamo un po' tutti. Guerre, scorrerie, parassiti, infezioni batteriche e virali contribuivano, infatti, a mantenere bassa l’età media di morte delle popolazioni del passato, ma l’idea che alcune patologie - apparentemente legate allo stile di vita del mondo moderno - fossero loro risparmiate è sempre stata una sorta di “pensiero diffuso”, anche nel mondo degli archeologi.
Le ricerche paleopatologie, tuttavia, hanno progressivamente smontato anche questa errata opinione. Anche se certi radicati, quanto improbabili, assunti sono duri a morire (ho sentito con le mie orecchie affermare che “le carie nella preistoria erano rare perché il consumo di zuccheri era quasi nullo”, e non si trattava di uno studente), l’esame dei resti umani da parte degli specialisti ha dimostrato che patologie che, di solito, mettiamo in relazione con fattori reputati “moderni” come l’inquinamento dell’aria o il fumo hanno, in realtà, origini molto più antiche di quanto non si pensi.
Non deve quindi apparire sorprendente la scoperta di un gruppo di ricerca dell’Università di Durham che ha riscontrato la presenza di individui affetti, già 3000 anni fa, da aterosclerosi ad Amara West in Sudan. Gli scheletri esaminati presentavano, infatti, tracce delle minuscole e sottili placche calcificate che rivestono le arterie degli individui affetti da questa patologia, placche che, progressivamente, ostruiscono il lume arterioso causando anche trombosi e infarti. Gli scheletri esaminati sono correlabili ad individui di vario status sociale e morti ad un’età compresa tra i 35 e i 50 anni, quindi relativamente elevata per l’epoca.
La bioarcheologa Michaela Bender e la paleopatologa Charlotte Roberts hanno sottolineato l’importanza del rinvenimento che si aggiunge a quello di un individuo che presentava metastasi tumorali proveniente dalla stessa area e risalente al 1200 a.C. circa, soprattutto perché è molto difficile trovarne le prove su uno scheletro umano. 
Se è vero che fumo, obesità e stress sono tra i fattori che contribuiscono all’insorgere della patologia, è anche vero che fattori altrettanto nocivi erano presenti nella vita quotidiana della comunità di agricoltori che popolava quest’area situata a circa 750 Km a Nord di Karthoum. Ad esempio l’esposizione prolungata al fumo generato dalla cottura dei cibi, ma anche dalla produzione di manufatti fittili e dai forni per la metallurgia, può essere stata una delle cause che ha contribuito allo sviluppo dell’aterosclerosi in questi individui.
Non si tratta, però, della prima attestazione di aterosclerosi in popolazioni così antiche. Uno studio, pubblicato sulla rivista medica Lancet, condotto su 137 corpi mummificati risalenti a varie epoche. provenienti da Egitto, Perù e Alaska aveva già dimostrato, attraverso una serie di tomografie, che un terzo circa degli individui esaminati soffriva di occlusione delle arterie dovuti a depositi calcificati.
Un breve video, pubblicato su YouTube, relativo a quest'ultima ricerca, è visionabile all'hurl https://www.youtube.com/watch?v=QGsgXkmhmzk.






lunedì 24 marzo 2014

Il vino nell'Antico Egitto



Sabato scorso ha aperto le porte al pubblico un’interessante mostra dal titolo "Il vino nell'Antico Egitto. Il passato nel bicchiere". La mostra, che sarà ospitata nella chiesa di San Domenico di Alba - in provincia di Cuneo - rimarrà aperta sino al 19 maggio ed espone reperti cronologicamente compresi tra l’Antico Regno e l’età imperiale Romana descrivendo, anche attraverso la documentazione fotografica e iconografica la viticultura in Egitto, la produzione del vino, il suo uso in ambito alimentare e cultuale. La mostra è un'ottima occasione per parlare di vino e vigneti nell'Antico Egitto.



Il vino e le vigne nell’Antico Egitto

"Abbondante è l'uva sulle viti. In essa c'è molto succo, più che in qualsiasi anno. Bevi, inebriati, facendo quello che ti piace."*

Anche se la bevanda più diffusa presso gli Egiziani rimase sempre la birra, il vino conobbe una discreta diffusione sin dall’Antico Regno.
La vite, dono stesso di Osiride, fu sempre tenuta in considerazione presso gli egiziani. Coltivata principalmente nella regione del Delta, soprattutto nella parte orientale, ma anche in alcune oasi, sembra conoscere particolare splendore sotto i Ramessidi.
Nel Ramesseum numerosi contenitori fittili infranti erano stati utilizzati per contenere vino e le iscrizioni che riportavano indicavano la provenienza - l’area del Delta, per l’appunto - e frasi connesse con la caratterizzazione del contenuto che veniva definito come “buon vino della terza volta” o “buon vino dell’ottava volta”. A quale procedimento si riferissero esattamente quelle frasi è difficile saperlo con certezza. Possiamo certamente escludere che si trattasse di pigiature progressive perché il liquido ottenuto dopo otto passaggi del genere sarebbe un prodotto imbevibile per qualsiasi essere umano; secondo Pierre Montet, poteva trattarsi di travasature successive, effettuate per evitare che il vino si rovinasse. L’indicazione “vino dolce “ potrebbe invece indicare l’utilizzo di uve lasciate appassire, in modo da ottenere un’alta concentrazione zuccherina, ma secondo alcuni autori potrebbe trattarsi di vino nuovo, ancora con un forte sentore di mosto. La qualità della dolcezza del vino sembra essere stata particolarmente apprezzata dagli Egiziani poiché diversi testi enfatizzano questo attributo quando vogliono esaltare un buon vino, spingendosi sino al punto di affermare che esso è “più dolce del miele”.

Anche nella tomba di Tutankhamon erano presenti numerose anfore vinarie con iscrizioni in ieratico, talvolta riportate sui tappi in argilla dove troviamo scritto “vino dei possedimenti di Tutankhamon” o “buon vino dei possedimenti di Aton”, frasi che testimoniano l’esistenza di vigne reali di proprietà diretta del faraone e di vigne controllate dal clero che, probabilmente, ne girava una parte, sotto forma di tributo, al monarca.

Nel Papiro Harris Ramses III esalta così la sua opera: “Ti ho fatto dei vigneti da vino nelle oasi del sud e del nord, senza contare altri nella parte meridionale, in gran numero. Si sono moltiplicati nel Delta a centinaia di migliaia. Li ho provvisti di giardinieri presi fra i prigionieri dei paesi stranieri…”.

Le fonti iconografiche ci hanno tramandato diverse scene relative alla vendemmia: i grappoli venivano staccati con le dita, senza l’aiuto di coltelli o attrezzi simili, e sistemati in cesti di vimini che venivano trasportati sulla testa. L’uva, raccolta in bassi bacili, era pestata con i piedi e gli uomini addetti alla bisogna si sostenevano a delle corde, appese ad una trave di legno che si trovava sulle loro teste. In una raffigurazione di pigiatura nella tomba di Mera, visir di Pepi I, alcuni suonatori allietano o, più probabilmente, danno il ritmo agli uomini che “danzano” nel bacile pieno d’uva. Il succo ottenuto defluiva da alcune aperture e veniva raccolto in un catino posto in basso.

La pigiatura, ovviamente, non poteva essere molto efficiente, perciò bisognava procedere ad un’ulteriore spremitura dei grappoli già schiacciati. Questi venivano messi in un sacco robusto che veniva ritorto e strizzato per mezzo di pertiche, mentre un inserviente badava che il prezioso succo non cadesse per terra a causa delle oscillazioni dell’involto.

Il mosto era poi travasato in anfore a fondo piatto per la fermentazione e successivamente travasato, per l’eventuale trasporto, in tipiche anfore di forma allungata, con fondo a punta, grandi anse e collo stretto. Simili contenitori erano portati a spalla o sospesi a una pertica in modo da essere trasportati da due persone.

Tutte le operazioni si svolgevano, per lo più, alla presenza di uno scriba a cui era demandato anche il compito di “etichettare” le anfore apponendovi le indicazioni sulla provenienza, le proprietà o l’annata.

Le immagini della vendemmia e della pigiatura mostrano, talvolta, la figura del serpente sormontata dal disco lunare. Si tratta della raffigurazione della dea Renutet, divinità-madre patrona delle messi, ma anche delle cantine e dell’uva.



*Petosiris, testi 43 e 44.




Il vino nell'Antico Egitto. Il passato nel bicchiere. Chiesa di San Domenico, Alba (CN)

Dal 22.03.2014 al 19.05.2014


martedì 18 marzo 2014

Un blog sulla bioarcheologia, perché?

Creare un blog che parli di bioarcheologia? Ma a chi vuoi che interessi...

Ho deciso di creare un blog tutto mio che parli di bioarcheologia perché non volevo si spezzasse il filo che, per anni, mi ha legato agli studenti che ho avuto la fortuna di veder transitare nel mio laboratorio, per soddisfare la richiesta di informazioni di coloro i quali mi chiedono notizie, curiosità, chiarimenti o bibliografia utile sull'argomento e, infine, per fare sul web quello che - poco modestamente - credo di saper fare meglio: raccontare, spiegare, aiutare a comprendere. Attraverso i miei post spero di riuscire ad accompagnarvi numerosi in un lungo viaggio nel tempo, seguendo il filo d'Arianna del rapporto tra uomo e esseri viventi nel corso di oltre due milioni di anni. Per capire che non siamo stati "altro" rispetto alla natura che ci circondava; e che ancora oggi non lo siamo.