lunedì 24 marzo 2014

Il vino nell'Antico Egitto



Sabato scorso ha aperto le porte al pubblico un’interessante mostra dal titolo "Il vino nell'Antico Egitto. Il passato nel bicchiere". La mostra, che sarà ospitata nella chiesa di San Domenico di Alba - in provincia di Cuneo - rimarrà aperta sino al 19 maggio ed espone reperti cronologicamente compresi tra l’Antico Regno e l’età imperiale Romana descrivendo, anche attraverso la documentazione fotografica e iconografica la viticultura in Egitto, la produzione del vino, il suo uso in ambito alimentare e cultuale. La mostra è un'ottima occasione per parlare di vino e vigneti nell'Antico Egitto.



Il vino e le vigne nell’Antico Egitto

"Abbondante è l'uva sulle viti. In essa c'è molto succo, più che in qualsiasi anno. Bevi, inebriati, facendo quello che ti piace."*

Anche se la bevanda più diffusa presso gli Egiziani rimase sempre la birra, il vino conobbe una discreta diffusione sin dall’Antico Regno.
La vite, dono stesso di Osiride, fu sempre tenuta in considerazione presso gli egiziani. Coltivata principalmente nella regione del Delta, soprattutto nella parte orientale, ma anche in alcune oasi, sembra conoscere particolare splendore sotto i Ramessidi.
Nel Ramesseum numerosi contenitori fittili infranti erano stati utilizzati per contenere vino e le iscrizioni che riportavano indicavano la provenienza - l’area del Delta, per l’appunto - e frasi connesse con la caratterizzazione del contenuto che veniva definito come “buon vino della terza volta” o “buon vino dell’ottava volta”. A quale procedimento si riferissero esattamente quelle frasi è difficile saperlo con certezza. Possiamo certamente escludere che si trattasse di pigiature progressive perché il liquido ottenuto dopo otto passaggi del genere sarebbe un prodotto imbevibile per qualsiasi essere umano; secondo Pierre Montet, poteva trattarsi di travasature successive, effettuate per evitare che il vino si rovinasse. L’indicazione “vino dolce “ potrebbe invece indicare l’utilizzo di uve lasciate appassire, in modo da ottenere un’alta concentrazione zuccherina, ma secondo alcuni autori potrebbe trattarsi di vino nuovo, ancora con un forte sentore di mosto. La qualità della dolcezza del vino sembra essere stata particolarmente apprezzata dagli Egiziani poiché diversi testi enfatizzano questo attributo quando vogliono esaltare un buon vino, spingendosi sino al punto di affermare che esso è “più dolce del miele”.

Anche nella tomba di Tutankhamon erano presenti numerose anfore vinarie con iscrizioni in ieratico, talvolta riportate sui tappi in argilla dove troviamo scritto “vino dei possedimenti di Tutankhamon” o “buon vino dei possedimenti di Aton”, frasi che testimoniano l’esistenza di vigne reali di proprietà diretta del faraone e di vigne controllate dal clero che, probabilmente, ne girava una parte, sotto forma di tributo, al monarca.

Nel Papiro Harris Ramses III esalta così la sua opera: “Ti ho fatto dei vigneti da vino nelle oasi del sud e del nord, senza contare altri nella parte meridionale, in gran numero. Si sono moltiplicati nel Delta a centinaia di migliaia. Li ho provvisti di giardinieri presi fra i prigionieri dei paesi stranieri…”.

Le fonti iconografiche ci hanno tramandato diverse scene relative alla vendemmia: i grappoli venivano staccati con le dita, senza l’aiuto di coltelli o attrezzi simili, e sistemati in cesti di vimini che venivano trasportati sulla testa. L’uva, raccolta in bassi bacili, era pestata con i piedi e gli uomini addetti alla bisogna si sostenevano a delle corde, appese ad una trave di legno che si trovava sulle loro teste. In una raffigurazione di pigiatura nella tomba di Mera, visir di Pepi I, alcuni suonatori allietano o, più probabilmente, danno il ritmo agli uomini che “danzano” nel bacile pieno d’uva. Il succo ottenuto defluiva da alcune aperture e veniva raccolto in un catino posto in basso.

La pigiatura, ovviamente, non poteva essere molto efficiente, perciò bisognava procedere ad un’ulteriore spremitura dei grappoli già schiacciati. Questi venivano messi in un sacco robusto che veniva ritorto e strizzato per mezzo di pertiche, mentre un inserviente badava che il prezioso succo non cadesse per terra a causa delle oscillazioni dell’involto.

Il mosto era poi travasato in anfore a fondo piatto per la fermentazione e successivamente travasato, per l’eventuale trasporto, in tipiche anfore di forma allungata, con fondo a punta, grandi anse e collo stretto. Simili contenitori erano portati a spalla o sospesi a una pertica in modo da essere trasportati da due persone.

Tutte le operazioni si svolgevano, per lo più, alla presenza di uno scriba a cui era demandato anche il compito di “etichettare” le anfore apponendovi le indicazioni sulla provenienza, le proprietà o l’annata.

Le immagini della vendemmia e della pigiatura mostrano, talvolta, la figura del serpente sormontata dal disco lunare. Si tratta della raffigurazione della dea Renutet, divinità-madre patrona delle messi, ma anche delle cantine e dell’uva.



*Petosiris, testi 43 e 44.




Il vino nell'Antico Egitto. Il passato nel bicchiere. Chiesa di San Domenico, Alba (CN)

Dal 22.03.2014 al 19.05.2014


martedì 18 marzo 2014

Un blog sulla bioarcheologia, perché?

Creare un blog che parli di bioarcheologia? Ma a chi vuoi che interessi...

Ho deciso di creare un blog tutto mio che parli di bioarcheologia perché non volevo si spezzasse il filo che, per anni, mi ha legato agli studenti che ho avuto la fortuna di veder transitare nel mio laboratorio, per soddisfare la richiesta di informazioni di coloro i quali mi chiedono notizie, curiosità, chiarimenti o bibliografia utile sull'argomento e, infine, per fare sul web quello che - poco modestamente - credo di saper fare meglio: raccontare, spiegare, aiutare a comprendere. Attraverso i miei post spero di riuscire ad accompagnarvi numerosi in un lungo viaggio nel tempo, seguendo il filo d'Arianna del rapporto tra uomo e esseri viventi nel corso di oltre due milioni di anni. Per capire che non siamo stati "altro" rispetto alla natura che ci circondava; e che ancora oggi non lo siamo.